LA
TRAMA |
PRIMO ATTO
- Scena Prima
Tutti gli uomini dellInnominato sono schierati. I Bravi circondano
e trattengono un uomo. LInnominato fa un cenno al Nibbio che
spara. Luomo cade, la donna, con Cecilia e laltra figlia,
piange il cadavere del marito.
- Scena Seconda
Il coro dei fedeli festeggia lingresso del Cardinale Borromeo
- Scena Terza
In un clima ricco dallegria, le filatrici tessono con Lucia.
Allimprovviso arrivano Don Rodrigo e Attilio con i Bravi. Don
Rodrigo adocchia Lucia e con prepotenza cerca di conquistarla.
- Scena Quarta
Renzo prende in disparte Lucia, la costringe a sedere. Si giurano
amore eterno e pregustano il momento del loro imminente matrimonio.
Canzone Io e Te.
- Scena Quinta
I Bravi minacciano Don Abbondio: il matrimonio di Renzo e Lucia non
sa da fare.
- Scena Sesta
Renzo si reca da Don Abbondio per definire gli ultimi accordi sul
matrimonio con Lucia, per strada incontra uno scanzonato gruppo di
amici.
- Scena Settima
Renzo arriva a casa di Don Abbondio che alla sua vista viene assalita
da una febbre tanto improvvisa quanto sospetta. Il matrimonio sa
da rinviare.
- Scena Ottava
Perpetua cerca di confortare Renzo avvilito dopo lincontro con
Don Abbondio.
- Scena Nona
Renzo ritorna da Don Abbondio e, scoperta la verità,
se ne va infuriato.
- Scena Decima
Renzo non si lascia intimorire è pronto a tutto pur di difendere
la sua storia damore. Canzone dei prepotenti.
- Scena Undicesima
E tutto pronto per la festa, ci sono già gli invitati,
Lucia è radiosa pronta a pronunciare il si. Ma
il matrimonio viene rimandato. Le pettegole pettegolano.
- Scena Dodicesima
Renzo spiega a Lucia ed Agnese il vero motivo dellassenza del
curato minacciato da Don Rodrigo.
Lucia rivela lo scontro avvenuto con Don Rodrigo.
- Scena Tredicesima
Renzo chiede inutilmente aiuto allAvvocato Azzeccagarbugli.
- Scena Quattordicesima
Nel casino di Don Rodrigo tutti si divertono.
I Bravi, Azzeccagarbugli e i Signorotti spagnoli godono in compagnia
delle puttane.
- Scena Quindicesima
Fra Cristoforo cerca invano di convincere Don Rodrigo a rinunciare
a Lucia. Don Rodrigo ordina al Griso di rapire Lucia.
- Scena Sedicesima
Il Griso definisce con i Bravi la strategia per rapire Lucia.
- Scena Diciassettesima
Dopo il fallimento di fra Cristoforo, Agnese spinge Renzo
e Lucia a presentarsi dinanzi a Don Abbondio, con due testimoni.
- Scena Diciottesima
Renzo e Lucia con due testimoni si materializzano dinanzi a Don Abbondio,
costringendolo a sposarli. Don Abbondio impedisce a Lucia di pronunciare
il fatidico si, e chiama aiuto. Lucia e Renzo scappano
inseguiti dai Bravi. Quando arrivano i Bravi è tardi, Fra Cristoforo
ha già spinto in acqua la barca con Agnese, Renzo e Lucia,
e consegnata a Lucia una lettera perché sia accolta nel monastero
di Monza.
- Scena Diciannovesima
Renzo e Lucia scivolano sulle acque del lago lasciandosi alle
spalle le angosce ma anche i ricordi di una vita felice.
SECONDO ATTO
- Scena Prima
Dal monastero si vede uscire Egidio, lamante della Monaca di
Monza. La Monaca canta il suo amore.
- Scena Seconda
Agnese e Lucia sono giunte al cospetto della Monaca di Monza alla
quale consegnano la lettera di Fra Cristofaro.
Agnese e Lucia chiedono protezione ed aiuto alla Signora.
- Scena Terza
Renzo è a Milano per raggiungere il convento di Monza; incorre
in una violenta protesta per il prezzo del pane.
- Scena Quarta
Ferrer placa la rivolta per il pane, Renzo coinvolto emotivamente
nella vicenda rischia di essere imprigionato.
- Scena Quinta A
Attilio parla al Conte Zio di Fra Cristoforo.
- Scena Quinta B
Il Conte Zio, daccordo con il Padre Provinciale, decide di trasferire
Fra Cristoforo.
- Scena Quinta C
Don Rodrigo chiede aiuto allInnominato per rapire Lucia che
è rinchiusa nel convento di Monza.
- Scena Quinta D
Linnominato minaccia la Monaca di Monza che protegge Lucia.
- Scena Sesta
I Bravi dellInnominato rapiscono Lucia che è appena uscita
dal convento.
- Scena Settima
Lucia è rinchiusa nel castello dellInnominato al quale
chiede
pietà. Fa un voto di castità alla Vergine Maria perché
la salvi dal pericolo.
- Scena Ottava
In una notte tempestosa, preso dalla pietà di Lucia, lInnominato
si converte.
- Scena Nona
LInnominato si precipita dal cardinale al quale confessa i suoi
peccati, i suoi delitti. Chiede perdono a Dio e libera Lucia che finalmente
può abbracciare Agnese.
- Scena Decima
I Lanzichenecchi conquistano Milano invasa dalla guerra e dalla peste.
- Scena Undicesima
La peste miete vittime afferrate inesorabilmente dai monatti; fra
queste cè anche Don Rodrigo. La Monaca di Monza è
ridotta in catene. Renzo cerca disperatamente la sua Lucia.
- Scena Dodicesima
Nel Lazzaretto Fra Cristoforo, appena prima di morire, benedice Renzo
e Lucia che si abbracciano felici sotto la pioggia salvifica.
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IL
ROMANZO |
Il vero. Il romanzo narra la
vicenda di due contadini impediti nel matrimonio dallarroganza
di un signorotto. I contadini: Lucia e Renzo; il signorotto: don
Rodrigo; larroganza: il momento storico, nel quale è
di norma opprimere, soverchiare, demolire la dignità umana.
Quando domina larroganza, lo Stato è assente: è
assente la giustizia, che è un indispensabile punto fermo
della vita sociale. Il Diritto tutela la vita comune, protegge lindividuo
contro la soverchieria, carica la volontà individuale di
forza vitale e di fiducia nelle istituzioni. Quando il diritto non
funziona, governa la paura; governa la violenza, non la violenza
che si configura nella coscienza delle masse come uno strumento
indispensabile per creare il progresso nella storia, ma la sopraffazione
che è violenza, quella che parte dallalto, che dilaga
e si rompe in mille rivoli, deforma il volto e lanima della
società. Gli uomini a questo punto diventano il prodotto
del momento storico, incapaci e impossibilitati a esprimere seppur
nei limiti consentiti dal rispetto altrui, la propria personalità,
e a quel momento portano materia di crescita e spinte di maggiore
degenerazione. Il vero è il momento storico nella sua interezza
e nel suo complesso e multiforme spiegarsi e diversificarsi. Vero
è il momento storico nella sua interezza, quel che accade
e veri sono gli uomini nella misura in cui sono condizionati da
quel che accade e iniziatori a loro volta di comportamenti indotti,
i quali da consuetudinari via via si interiorizzano, diventano convinzioni,
visioni della realtà delluomo. Vere sono le rivolte,
vera è la peste, vero è il malgoverno, veri sono gli
uomini e i fatti che si concatenano e si scatenano luno dietro
laltro... veri Lucia, Renzo, don Abbondio, Gertrude...: tutta
una vasta materia di storia intesa, questa storia, nellaccezione
più ampia e integrale delle concezioni. Lo spaccato
della società è bello e puntualizzato già nel
primo capitolo. è una società nella quale governa
la Paura, governa larroganza: non cè diritto
che tenga né morale né Religione né presenza
politica di alcuna efficienza. Le grida restano solo gridate, i
curati pensano esclusivamente alla loro pelle, gli avvocati che
dovrebbero battersi per la punizione di coloro che violano la giustizia,
piegano la schiena servile al potere, sono incolti, infine sgradevoli.
In una società siffatta godersi una contadinotta piacente
non è affatto un delitto, ma una consuetudine che rientra
nelle manifestazioni del potere; anzi, se non si facesse si sarebbe
sminuiti. Le acque si sommuovono quando spunta un imprevedibile
fra Cristofaro che si comporta coerentemente con i dettami della
religione. Fra Cristofaro è uninvenzione letteraria,
è larte stessa che dopo avere illuminato i fatti e
le condizioni della storia, ne indica la soluzione: è larte
che diventa religione dopo di essere passata nei fatti come coscienza
morale. Linvenzione letteraria è lì il punto
di fusione dellarte della morale: è la religione stessa,
se si vuole. La indagine nel vero porta alla coscienza critica della
storia e questa conduce alla verità. E fra Cristofaro possiede
questa verità, lha trovata nel vero. Anche fra Cristofaro
si presenta inizialmente come un personaggio indotto, costruito
nel momento storico che egli vive, ma in quel momento egli ha trovato
la fede e nella fede la coscienza precisa di quel che si deve e
quel che non si deve. Il condizionamento del momento Istorico non
giustifica lazione, anzi nellazione fa delluomo
un soggetto etico. La volontà di bene è chiara e irremovibile.
Essa nasce dalla fede e della fede possiede i medesimi caratteri
del vigore e della incrollabilità i quali ricordano la serenità
con la quale i primi cristiani andavano incontro alle fiere, convinti
che un attimo dopo la morte fisica avrebbero percorso i pascoli
della beatitudine eterna. In questa prospettiva si colloca anche
Lucia: semplice, pudica, forte, più forte di tutti. L
utile non è affatto distinto dal vero tantomeno
lo è linteressante. È il vero che di per sé
è utile ed interessante: quando è vero e quando è
il risultato di una invenzione che lo integra o che ne ripropone
condizioni perfettamente analoghe a quelle del vero storico.
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Il
romanzo della paura
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Il romanzo, cominciato a scrivere nella seconda
metà del 1821, apre uno straordinario senso di vuoto, nellassenza
di ogni sentimento nobile ed eroico, che la fede e la religione
riescono appena a lenire. Nessun romanzo contemporaneo, in Europa,
respira unatmosfera altrettanto tesa di paura, ove non sono
soltanto molti dei suoi personaggi ad agire nel male, ma le forze
della natura, le malattie, le scorrerie, gli eserciti, i contagi.
E come uneterna apparizione ricompare il morbo sempre ricorrente
nella letteratura universale: la peste. La peste di Atene, la peste
di Firenze. di Venezia, di Londra, la peste della letteratura burlesca,
dal Berni al Rabelais.
Quando Manzoni comincia a scrivere, il suo
Adelchi è scomparso dalla scena. Napoleone è morto.
Eroi immaginati ed eroi vissuti spandono intorno un silenzio assoluto,
ove gli impeti rivoluzionari, leco delle grandi vittorie,
in cui luomo veniva esaltato nella sua indomabile forza, si
spengono in un quadro di noia mortale. Dora in avanti
regneranno i banchieri , pare che dicesse il banchiere liberale
Laffitte accompagnando il duca dOrlèans dopo la Rivoluzione
di luglio. E Stendhal, non molti anni dopo, con la Chartreuse, scriverà
il romanzo della disfatta, dove continuano ad esistere, e ne riempiono
lorizzonte, i grandi miti, ma destinati anchessi a crollare,
entro il quadro della caduta, senza remissione dappello, dellastro
napoleonico sullEuropa che sembra improvvisamente oscurarsi.
Ma a questo scenario di tetra disperazione Stendhal (che pure scrive
quasi sulla soglia della morte) darà una straordinaria carica
di vitalità, riempiendolo di musica e di desiderio. I Promessi
Sposi sono un romanzo di morte. E il fatto che esso non fosse un
romanzo contemporaneo che potesse prendere luce dallincertezza
dellavvenire, situato comera in un periodo storico lontano,
costruito su fatti accertati, su cui non era arbitrario esprimere
un giudizio, dava a ciò che veniva raccontato qualcosa di
irrevocabile. unatmosfera soffocante che, malgrado la fede,
la religione, assurgeva ad una forma di epopea negativa.
Ma al tempo stesso quella concezione si allargava.
Il passato non era soltanto un passato autobiografico, individuale,
ma era ciò che la storia non riusciva a vedere, il passato
di noi viventi, e di coloro che erano scomparsi. Il loro volto non
appare certo su alcun monumento ma riposa senza essere visto negli
usi e nei costumi della nostra gente, nella terra e nel paesaggio
in cui essa nacque; la Scozia per Scott. la Lombardia per Manzoni.
Non eroi, ma popolo, quellindefinibile popolo che ha sopportato
sciagure, invasioni, conquiste, oltraggiato dai vincitori, reso
povero, misero dalle spoliazioni, vinto, e che pure aveva continuato
a lavorare e a vivere come se avesse in serbo un umile messaggio
da trasmettere, Unoscura civiltà da proteggere. Ed
ecco perché non vi sono eroi in Scott o in Manzoni. I protagonisti
vivono la crisi del popolo cui appartengono, senza alcun tentativo
di isolamento romantico.
Quella crisi in Scott è il tramonto
della società gentilizia. Ma nel Manzoni non si assiste ad
alcun tramonto. E tutto il romanzo, rispetto alla linea rigorosa
del racconto e alla vita dei personaggi, nasce da una volontà
di trasgressione e di digressione: dal dare contenuto e svolgimento
a quella chera da considerare uninterruzione della tragedia,
nella visione di un popolo che nella tragedia eroica non poteva
avere diritto dingresso. E nelledizione del 1840, quando
il romanzo si conclude con un lieto fine, ecco che si riapre violentemente
come vedremo con un altro terribile quadro: la Storia
della Colonna Infame, qualcosa che non fa corpo col libro ma gli
appartiene e che, nato dal libro, ritorna al libro.
La nascita quasi improvvisa del narratore
sulla fine del poeta tragico poteva ricevere più luce, e
più forza, dallesercizio continuo della sua esperienza
di storico, cui Manzoni non si era mai sottratto. LOttocento
stava per divenire il grande secolo della storia. La storia, dopo
aver invaso gli altri generi, invadeva il romanzo. Gli storici influivano
sui romanzieri e i romanzieri sugli storici. Gli storici indicavano
un nuovo modo dinterpretare la storia e i romanzieri un nuovo
modo di scriverla. Il Capolavoro di uno storico che Manzoni conosceva,
il Thierry, la cui visione era vicina alla sua, fu un libro di racconti:
i Récits des temps mérovingiens. E questo nuovo modo
di scrivere la storia avveniva grazie a un rinnovato bisogno di
natura stilistica, che esigeva insieme conoscenza dei documenti
(fino alla superstizione), necessità dinventare sul
certo, e insieme una cauta ironia che rendeva meno rigoroso e più
accettabile quelleccesso di sicurezza.
Le memorie che rimanevano delletà
fosca chegli scelse per il suo romanzo - come scrisse al Fauriel,
quando era tutto intento a comporre unopera che poi non avrebbe
mai pubblicato - facevano supporre una situazione della società
del tutto straordinaria. Il governo più arbitrario combinato
con lanarchia feudale e lanarchia popolare; una legislazione
spaventevole per ciò chella prescrive e per ciò
che fa supporre; unignoranza profonda, feroce e pretenziosa;
classi che avevano interessi e regole opposte; fatti poco noti ma
conservati in scritti degnissimi di fede e che mostrano un grande
sviluppo di tutto questo; e infine la peste che ha dato occasione
alla scelleratezza la più consumata e la più svergognata,
ai pregiudizi più assurdi e alle virtù più
commoventi.
Ma a Manzoni non sfuggiva che quel secolo
terribile e crudele era un grande secolo da romanzo, e possedeva
nelle sue pieghe oscure assai più di quanto potesse apparire.
Proprio nelloffesa alla regola, nella licenza, nellarbitrio
e nel forsennato gusto di godere e di dominare, di divertirsi e
di opprimere, offriva qualcosa di solenne e di effimero; unesaltazione
dello spettacolo e grandi qualità di rappresentazione. Offriva
una folla di personaggi che noi possiamo incontrare un po
dappertutto: nei dipinti, nelle stampe, sui teatri, nei romanzi
davventura, nelle grandi decorazioni, negli apparati, nelle
struttura narrativa, la critica e lo slancio, lausterità
dei giudizi ed il sorriso, lentusiasmo per lideale,
lo stupore per il reale, ed il giudizio, carceri, snei conventi,
nelle sale di tortura, tra risse, guerre e sommosse e infine, nello
splendore mistico delle chiese, nelle funzioni religiose. Sono giocatori,
bari, attori tragici e comici che girano da una città allaltra.
Sono armigeri, buffoni, uomini di chiesa, santi, grandi prelati
e umili curati, straordinari pittori e architetti, autentici scienziati
e scienziati folli e falsi cristi, alchimisti, truffieri, coglionatori,
come si diceva, dei curiosi, e moralisti atroci...
GIOVANNI MACCHIA (in
Manzoni europeo, per gentile concessione della Cariplo, Milano 1985)
|
Protagonista
il Seicento |
Se davvero di un protagonista sensibile
si vuol parlare, se non altro per luso metaforico della conversazione,
e sempre col sottinteso che il protagonista vero è il sentimento,
lo stato danimo dello scrittore, bisognerebbe pensare e sostenere
che protagonista è tutto un secolo, è tutta una civiltà,
protagonista vero e immanente in ogni pagina è il Seicento.
E la nostra non vuole essere uninterpretazione più
ingegnosa e più lata da sostituire ad altre più ristrette
e troppo fisicamente limitate, ma la proponiamo per un momento,
poiché essa ci avvia ad intendere una delle note dellispirazione
dellartista. La quale, si sa, è fondamentalmente unispirazione
etico-storica; e precisamente il Seicento rimane il simbolo di questo
fortissimo gusto storico del Manzoni, il quale proietta tutto il
suo mondo morale, è vero, in una realtà quotidiana
ed attuale, ma in una realtà che ha fortissimo un suo colorito
storico: è realtà di tutti i tempi, perché
innanzi tutto è la realtà di un secolo, di una civiltà,
di un particolare regime. E questo protagonista incombe presente
in ogni pagina, fin dallIntroduzione, in cui si parla del
dilavato e graffiato manoscritto dellAnonimo, che è
una delle tante stampe seicentesche, disseminate dallo scrittore
nel suo racconto. È cotesta trovata dellAnonimo sarà
suggerita da due ragioni entrambe di ordine artistico, ma che si
richiamano sempre a quellispirazione etico-storica di cui
si diceva più innanzi: giocare maliziosamente col doppione
di se stesso, mettendo in bocca allAnonimo sentenze e giudizi
personali, e dare una più forte patina, un più denso
sapore storico al racconto.
Codesto gusto della stampa seicentesca ritornerà
in ogni capitolo, non solo a tratti, ma imbevendo di sé ogni
immagine. Ritorna nel primo capitolo, con la digressione sui bravi
e con quel mirabile ritratto dei due che attendono don Abbondio.
Dove ogni nota è piena del gusto del secolo carceri, nei
conventi, nelle sale di tortura, tra risse, guerre e sommosse e
infine, nello splendore mistico delle chiese, nelle funzioni religiose.
Sono giocatori, bari, attori tragici e comici che girano da una
città allaltra. Sono armigeri, buffoni, uomini di chiesa,
santi, grandi prelati e umili curati, straordinari pittori e architetti,
autentici scienziati e scienziati folli e falsi cristi, alchimisti,
truffieri, coglionatori, come si diceva, dei curiosi, e moralisti
atroci...
GIOVANNI MACCHIA (in
Manzoni europeo, per gentile concessione della Cariplo, Milano 1985)
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Lironia |
Lironia manzoniana contribuisce a staccare
il personaggio dallautore e a farlo vivere di vita propria,
storicizza i ragionamenti e ne mostra il margine di errore, inserisce
tra gli eventi narrati la casualità: tutti elementi necessari
alla naturalezza dellazione. Come rapporto normale fra narratore
e oggetto della narrazione, lironia diventa un fatto strutturale
amplissimo, il modo della partecipazione dellartista in una
sfumata varietà di atteggiamenti: per essa era necessaria
la forma distesa della prosa romanzesca consenziente ad una rappresentazione
più piena della vita. Lesigenza ironica è probabilmente
quella che ha imposto la forma di romanzo, che ha prodotto lo
sliricarsi della creazione poetica, facendo coesistere la
meditazione e la seggiolone alta e quadrata, terminata agli angoli
da due ornamenti di legno che si alzavano a foggia di corna. E poi
lindugio su quella grida sciorinata in aria, e, che, secondo
la confessione del Manzoni stesso, letta nelle opere del Gioia,
fu quella che gli fornì il primo spunto del romanzo: anche
questa preistoria, questa genesi fenomenica, per dir così,
del romanzo ci richiama a quello che è stato il fantasma
poetico-polemico principale, iniziale, della fantasia dellartista:
il Seicento, il Seicento non tanto come avvenimenti storici, che
ciò avrebbe potuto essere ingrediente esteriore, impalcatura,
scenografia del cosiddetto romanzo storico, ma il Seicento come
spirito, come logica, come gusto, come vita morale. Anche senza
la guerra per la successione di Mantova, il romanzo sarebbe rimasto
lo stesso il romanzo del Seicento. Di quel secolo lautore
viene tracciando linterna vita, la quale, perché svuotata
dal sentimento intimo di Dio, deve essere necessariamente vana,
pomposa, barocca. Il puntiglio e lorgoglio, ecco le più
vere divinità di quel secolo esteriore e farisaico.
LUIGI RUSSO (I personaggi
dei Promessi Sposi, Laterza, Bari, 1955)
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Paesaggi
manzoniani |
Il paesaggio, nel romanzo manzoniano, rispecchia
gli stati d'animo dei personaggi, che spesso sono inseriti a bella
posta in un contesto naturale a loro somigliante.
Così avviene nel famoso addio di Lucia al paese, la cui prospettiva
si allontana a mano a mano che la barca scivola silenziosa sulle
acque del lago. Il silenzio notturno, il chiarore che si riflette
sulle onde, rotte dall'immergersi dei remi, è lo sfondo ideale
delle tacite meditazioni della fanciulla, che esprimono i sentimenti
universali di chi si allontana dalla casa natia, dai luoghi dei
suoi affetti, per avviarsi verso un futuro incerto, che non promette
la serenità assicurata dalle cose e dai volti familiari.
Un paesaggio che fa "coro" con
uno stato d'animo è quello di natura autunnale triste ma
serena che accompagna la presentazione del personaggio di Padre
Cristoforo nel capitolo quarto, una immagine luminosa che è
analoga alla chiarità d'animo dell'uomo, ancora nel vigore
degli anni e della mente, energico e risoluto ma reso lieto e intimamente
sereno dalla sicurezza della fede.
Un quadro tranquillo e quasi intimistico
di vita domestica e paesana è quello tratteggiato nel capitolo
settimo. E' un momento di quiete sul far della sera, in cui la gente
si ritrova, gli uomini tornano dal lavoro dei campi con gli arnesi
in spalla, le donne preparano le cucine per la sobria cena e la
luce si affievolisce a poco a poco, mentre i bambini giocano sulle
soglie.
I rintocchi della campana chiamano ai vespri ed il brusio del giorno
lentamente si spegne.
E' la quiete che precede la tempesta, perchè Renzo sta prendendo
accordi con due amici per combinare il matrimonio segreto e fra
poco l'azione del romanzo precipiterà in un crescendo inarrestabile,
fino alla fuga dei giovani dal paese.
Un bel paesaggio mattutino di cielo sereno
si apre a Renzo la mattina in cui, sfuggito alla sommossa dei milanesi
ed all'arresto come sovversivo, dopo una notte scura e fredda in
cui ha viaggiato accompagnato da pensieri lugubri, si dirige verso
l'Adda per attraversarlo e giungere in terra veneta.
E' analogo al personaggio che vi dimora il
paesaggio di balzi e dirupi scoscesi, di solitudine e di asprezza
selvaggia nelle altitudini che circonda il castello dell'Innominato
descritto nel capitolo diciannovesimo , alto e quasi irraggiungibile,
isolato e in certo modo vago come un incubo, come l'uomo feroce
di cui si raccontano tante storie, ma di cui per certo si sa solo
che può irridere altri potenti ed è in grado di comportarsi
come gli aggrada, senza tema di giudizio.
Superbo e inarrivabile, anche dopo la sua trasformazione in benefattore
si aggira tra le solitudini di quelle rocce sul suo cavallo come
indiscusso dominatore di uomini che, dal primo all'ultimo, sono
spietati e temibili ed hanno le mani lorde di sangue.
La desolazione della città, stremata
dalla carestia e dalla peste, è invece descritta nel capitolo
trentaquattresimo, che vede Renzo avanzare, in uno stato d'animo
incerto e turbato, alla ricerca di Lucia, in una serie di contrade
squallide, dominate dalla presenza della morte, dalle immagini delle
pire che divorano mucchi di stracci infetti, dalle processioni di
convogli carichi di mucchi di cadaveri.
Le strade semideserte sono affiancate da case vuote e mezze saccheggiate
ed i pochi passanti si stringono ai muri diffidenti, terrorizzati
all'idea di essere assaliti dagli untori. Interi quartieri abbandonati
risuonano solo del campanello dei monatti e delle campane che, di
tanto in tanto, chiamano alla preghiera in favore dei morti e dei
malati.
In questo scenario tetro, in cui sulle piazze
spiccano gli strumenti di tortura ed in cui la calma mortale è
rotta solo dai lamenti, dalle bestemmie e dalle preghiere, Renzo
è egli stesso stravolto e, assalito dalla folla che vuole
ghermirlo come untore, estrae un coltellaccio.
Uno scenario di natura "malata"
è quello descritto quando il Manzoni ritrae il lazzaretto,
una distesa di luride capanne, di casupole arrangiate alla meglio
con travi di legno, di gente cenciosa distesa in terra, di portici
che brulicano di inservienti affannati intorno ai moribondi e di
monatti che trasportano via i cadaveri.
La luce plumbea di un cielo "cupo e abbassato", la nebbia
che si condensa in grandi nuvole, i raggi fiochi del sole che giungono
a malapena fra le travi e gli stracci, sono un riflesso dell'ansia
che tormenta Renzo e del dolore di tanta povera gente riunita a
morire.
E' famoso il grande temporale dell'epilogo,
l'acquazzone con lampi e tuoni in cui l'azione si scioglie e che
sembra quasi lavar via dall'animo di Renzo tutti i pensieri cupi.
Siamo al capitolo trentaseiesimo. La tempesta si preannuncia quando
Padre Cristoforo si dirige alla capanna di Lucia, appena ritrovata
da Renzo nel lazzaretto, e scoppia quando ormai la ragazza è
stata liberata dal voto fatto nella notte di prigionia al castello
dell'Innominato e quando i due promessi sono ormai certi della loro
felicità futura.
Renzo, rassicurato, parte per raggiungere Agnese e darle la buona
notizia e l'acqua già gocciola e saltella in rivoli e pozzanghere,
come a lavare il mondo ed il suo cuore, stanco di tanto patire.
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Luoghi
manzoniani |
Il romanzo si apre con un potente squarcio
paesaggistico che inquadra la regione del lago di Como, ed in particolare
la zona di Lecco. Questa città nel Seicento ospitava un mercato
molto ricco e frequentato, tanto che fu il solo a restare aperto
durante la grande peste del 1629. In quell'epoca il borgo di Lecco,
cinto da mura, non contava più di un migliaio di abitanti,
ma era al centro di una comunità agricola che comprendeva
una quindicina di villaggi, sorti sui colli ai piedi del monte e
lungo la strada che conduceva al non lontano confine della bergamasca
veneta. Il paese non poteva vantare alcun monumento. La chiesa era
incompiuta e non c'erano palazzi. Era attraversato da una "Fiumicella"
artificiale che giungeva fino al lago ed in cui gli artigiani riversavano
i loro rifiuti.
Ma Lecco era anche un castello, cioè
una piazzaforte spagnola sulla linea del Lario e dell'Adda, al confine
col dominio veneto. La sua funzione era quella di controllare i
Grigioni svizzeri che occupavano la Valtellina. Le mura furono sistemate
dagli Spagnoli a partire dal 1565 e seguono ancora oggi un andamento
quasi triangolare, con la base lungo la riviera del lago.
Il paesello di Renzo e Lucia non era una
grande città come Lecco. In seguito alla prima pubblicazione
del romanzo, nel 1827, si volle rintracciare il luogo natìo
dei Promessi Sposi in Acquate. Questa tradizione venne accettata
anche dalle mappe catastali e non venne discussa finchè lo
Stoppani non si mise a studiare accuratamente la pianta del paese
immaginario per verificarne le corrispondenze con il luogo reale.
Sia la casa di Lucia che la casa di Don Abbondio si dovevano trovare
in fondo al paese, quindi alle due estremità dell'abitato,
e la casa di Lucia, stando all'uomo che, nella notte degli imbrogli,
giunge alla chiesa e che abita di fronte alla Mondella, era "in
fondo alla strada". Si trattava dunque di una strada unica,
che scendeva in declivio a partire dalla chiesa e a metà
della quale era collocata l'abitazione di Renzo.
Queste caratteristiche corrispondono al paesino
di Olate. Ad Olate quella che viene oggi identificata come la casa
di Lucia è all'inizio del piccolo nucleo antico del paese.
Non è una casa piccola, dato che vi potevano abitare otto
o nove famiglie. Nel Settecento fu una masseria degli Airoldi Marchesini
di Acquate, che erano, fra l'altro, lontani parenti del Manzoni.
Fra i luoghi descritti nel romanzo, Pescarenico
è quello illustrato con maggiori dettagli. Scrive Manzoni
nel capitolo quarto:
"E' Pescarenico una terricciola sulla
riva sinistra dell'Adda, o vogliam dire del lago, poco discosto
dal ponte: un gruppetto di case, abitate la più parte da
pescatori, e addobbate qua e là da tramagli e da reti tese
ad asciugare. Il convento era situato ( e la fabbrica ne sussiste
tuttavia) al di fuori, e in faccia all'entrata della terra, con
di mezzo la strada che da Lecco conduce a Bergamo."
Oggi, sulla direttrice del corso, si trova
la piazza dedicata a Padre Cristoforo, la cui parte a monte è
dominata dalla chiesa dei santi Materno e Lucia, antico tempio dei
cappuccini. La chiesa, iniziata nel 1575, nel 1600 era stata dedicata
a S. Francesco. Il convento dei cappuccini di Pescarenico, la cui
costruzione fu seguita da S.Carlo, fu eretto "povero e basso"
nel 1578. Il chiostro aveva un semplice portico di bassi pilastri.
Nella prima edizione del romanzo, Manzoni
indica anche il nome del paesetto dove l'Innominato scende ad incontrare
il cardinale Borromeo. Quando Federigo manda a chiamare don Abbondio
ed il curato della parrocchia, Manzoni scrive:
"Il curato di Chiuso era un uomo che
avrebbe lasciato di sè una memoria illustre, se la virtù
sola bastasse a dare la gloria fra gli uomini..."
La casa parrocchiale di Chiuso è oggi
ancora quella piccolissima del Seicento. La casa del sarto doveva
trovarsi poco distante dalla chiesa, sulla carrozzabile verso Lecco.
Sulla piazzola della chiesa si trova il fabbricato che reca la targa
a ricordo di "Chiuso - il paese della conversione dell'Innominato,
della liberazione di Lucia, del sarto erudito".
Quanto al luogo in cui sorgeva il castello
dell'Innominato, i commentatori più antichi lo identificano
con la Rocca detta di Chiuso o di Vercurago. Il castello è
lambito da una profonda valletta attraversata dal torrente Galavesa
e si trova nella valle bergamasca di San Martino. I suoi resti sono
visibili tuttora. A pianta rettangolare, 15 metri per 60 circa,
all'ingresso la fortezza ospita una chiesuola dedicata alla Vergine
e a S. Ambrogio, eretta secondo la tradizione da Azzone Visconti
a ricordo della battaglia di Parabiago.
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Ambientazione
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Gli eventi storici sono alla base del romanzo.
Manzoni se ne serve per dare verosimiglianza alla narrazione, ma
anche per assumere il suo atteggiamento polemico verso la versione
ufficiale dei fatti quale essa è narrata dagli storici di
ogni epoca.
In precedenza, lo scrittore aveva fatto le sue riflessioni sul ruolo
della storia nella letteratura, problema col quale si era cimentato
già a proposito dell'Adelchi, quindi si era di nuovo soffermato
sull'argomento nella Lettre a M.Chauvet e nella Lettera sul Romanticismo.
Preparandosi alla stesura del romanzo, Manzoni
legge la "Storia di Milano" del Ripamonti, l'"Economia
e Statistica" di Gioia, le opere del Cardinale Borromeo ma,
soprattutto, i "Gridari", che contenevano tutte quelle
norme provvisorie a cui il governo ricorreva in mancanza di una
legislazione efficace.
Manzoni ambienta il suo romanzo nel Seicento
perchè considera questa l'epoca che meglio rappresenta una
aberrazione generale della società.
In una lettera al Fauriel egli scrive:
"il governo più arbitrario combinato
con l'anarchia feudale e l'anarchia popolare; una legislazione sbalorditiva
per ciò che positivamente stabilisce, o lascia indovinare,
o racconta; un'ignoranza profonda, feroce e pretenziosa; classi
sociali mosse da interessi e principi opposti...; infine una peste
che ha dato modo di far prova di sè alla scelleratezza più
consumata e spudorata, ai pregiudizi più assurdi, ed alle
virtù commoventi...".
Manzoni durante il soggiorno parigino fu molto influenzato dalle
tesi dello storico Thierry, secondo il quale le borghesie nazionali
subordinate alla nobiltà discendono dai popoli indigeni sottomessi
dalle invasioni esterne.
Si potrebbe forse spiegare così l'interesse dello scrittore
per gli oppressi, che egli considera non in termini di classe, ma
di nazionalità.
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Il
Seicento |
" Ma quanto più falsa è
la vita del Seicento nella sua sostanza morale, tanto più
viene ad assumere valore per sè quella che tante volte, anche
agli occhi più acuti, non lascia guardar nella sostanza:
la forma.
Il Seicento è il trionfo della forma,
anzi delle forme. Tutto si viola, ma la forma si rispetta sempre.
Nessun governo fu più iniquo e trascurato dello spagnuolo:
e nessuno produsse più leggi: e leggi giustissime, sacrosante,
e che consideravano tutti i possibili casi e sottocasi di delinquenza,
e comminavano pene a chiunque: feudatari, nobili, mediocri, vili,
plebei: "le ci son tutte, è come la valle di Giosafat",
diceva a Renzo l'avvocato Azzeccagarbugli: il quale però
sapeva anche che cosa valessero in effetto quelle terribilissime
grida, e come "a saperle ben maneggiare, nessuno era reo e
nessuno era innocente".
Il Seicento è il secolo più sensuale e più
epicureo, e tuttavia popola il mondo di conventi e di templi; ha
la forma della religiosità. Sino la tirannide ha nel Seicento
questa fisima della forma, e i filosofi che si mettono a difenderla,
l'Hobbes e il Grozio, parlano di un contratto fra sudditi e sovrani,
che renda il re padrone dei suoi sudditi di diritto.
E mentre si violano costantemente quelle leggi naturali, la cui
difesa a la cui riabilitazione saranno il paradosso e la gloria
del Rousseau, tanto più si osservano le leggi scritte, o
almeno la legalità." (Eugenio Donadoni da "Scritti
e discorsi letterari").
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